Stavano preparando la cena, quando…

Capitolo Primo di Mirella e i suoi uomini

La telefonata arrivò a tarda sera e sul fisso, che in genere veniva utilizzato solo per ricevere le chiamate della madre di Mirella o, raramente, di qualche altro suo parente anziano, senza contare piazzisti e disturbatori, al soldo di qualche compagnia elettrica. Ogni volta che  Marco sentiva squillare quell’enorme attrezzo di bachelite, ereditato dal suocero e unica macchia nera nel mare di bianco del loro salotto,  si chiedeva, sempre nella stessa successione, due cose: per quale motivo avessero ancora un abbonamento al telefono fisso e quale dei parenti avrebbe sequestrato sua moglie per una buona mezz’ora in una successione di chiacchiere alle quali era sostanzialmente indifferente, oltre che estraneo.  
Invece, era il professor Emilio G., come si presentò, e cercava Mirella, che “sa, è stata mia eccellente studentessa qualche anno fa all’università”. 
Mentre ascoltava quella voce decisamente giovane eppure profonda, Marco avvertì una strana sensazione che lo lasciò muto per qualche secondo. Quella frase, che gli sembrò una sorta di scusa non richiesta, suonava affettata e “leggermente fuori contesto”, come gli venne da definirla nel suo linguaggio da ricercatore sociale. ”Non si cercano studentesse,  avute anni prima, all’ora di cena”, pensò. 
In effetti, lui che sapeva tutto o quasi della carriera universitaria e lavorativa della moglie non ricordava affatto di aver sentito parlare di questo G. Del resto, osservò a sé stesso in uno dei suoi usuali dibattiti in solitario di cui era campione assoluto, il loro numero era nelle directory telefoniche, proprio a nome della moglie: trovarla non era così difficile e l’ora di cena era quella più probabile per essere sicuri di parlarle.  
“Disturbo?”, si sentì chiedere con gentilezza dall’altro parte del telefono, mentre se ne stava lì a riflettere.
Disturbava? Marco aveva programmi diversi quella sera: cenare presto e andare a dormire prima del solito. Era stata una giornata faticosa e impegnativa per lui all’università.   Quindi, un po’ sì, quell’estraneo lo disturbava, ma non glielo disse. Chiamò, invece, Mirella che si affacciò dalla porta della cucina con la sua espressione tipica di quando poneva quesiti taciti: sopracciglia piegate ad accen

to circonflesso, occhi socchiusi e bocca a cuore. Le annunciò a bassa voce,  premendo la mano sulla cornetta, chi li avesse interrotti nei preparativi del pasto, sperando quasi ci fosse stato un errore: “C’è un tipo che dice di essere stato tuo insegnante, G. mi sembra che abbia detto. Ma lo consoci?”.
“Il prof G.?”, sgranò gli occhi Mirella che gli tolse la cornetta dalle mani appena gli fu vicino. Sembrava sorpresa e turbata, come presa da un’ansia improvvisa, ma celò tutto sotto uno squillante e interrogativo “pronto?”, che forse ferì le orecchie del professore dall’altra parte del filo. Se disturbava qualcuno, non era certamente Mirella, che dopo l’impaccio iniziale, non sembrò avere alcuna fretta di chiudere quella chiamata inaspettata. Parlò, anzi, a lungo al telefono, dimenticandosi della cena che sfrigolava nel forno. Del coniglio, che non poteva essersi immolato alla fame umana di carne animale per finire bruciato insieme con delle olive non meno innocenti, si occupò Marco, che annegò il suo vago disappunto in un paio di calici di chardonnay. 
Intanto, la moglie se ne stava al telefono, ignara di quanto le accadeva intorno. Alternava lunghi silenzi ad altrettanto lunghi monologhi, nei quali sintetizzava al suo vecchio professore cosa avesse fatto negli anni dopo la laurea e lo aggiornava sul suo attuale lavoro al centro di ricerca.
“Sì, mi piacerebbe anche quel che faccio, se non fosse per il livello di studi e di responsabilità che mi sono affidati, che sono un po’ scarsini, alla fine” sottolineò Mirella. “Non mi posso lamentare, dai, ma obiettivamente  non tutto va come vorrei. In fondo, mi aspetto e cerco di più dalla mia carriera”, ammise. 
Oltre alla sua voce nell’ampio salotto di casa si sentiva solo il vento che schiaffeggiava la portafinestra del terrazzo. Nove piani più in basso e tutto intorno, contrariamente al solito, la città era silenziosa, quasi non volesse perdersi una parola di quella conversazione di lavoro a fine giornata.  
Il profumo che si diffuse per la casa diceva che la cena era pronta: il coniglio perfettamente cotto e le olive morbide al punto giusto. La telefonata, però, non accennava a finire. Marco si consolò piluccando del prosciutto dal piatto di portata, destinato all’antipasto, che era rimasto sulla credenza in cucina, e spiando di tanto in tanto, le gambe della moglie, che il corto e stretto vestitino di cotonina nera, la sua divisa preferita in casa, non riusciva a contenere. Affondata di traverso tra i due braccioli della poltrona, Mirella le muoveva continuamente scalciando la penombra della stanza, dalla quale emergevano solo i suoi lunghi arti inferiori e la massa di capelli biondi che le circondava il viso. Quel movimento rapiva Marco. Era affascinato non solo dalla forma di quelle cosce giovani, rese ancora più tornite dalle calze, velatissime e color carne, alle quali lei non rinunciava fino alla tarda primavera, ma anche dalla capacità di Mirella di tenere artigliate con le dita dei piedi le pantofole dal tacco di legno basso, il cui plantare le sbatteva ritmicamente contro i talloni  rotondi e tesi. Fermava il movimento delle gambe solo a tratti, per guardarsi le caviglie sottili e la profonda curva del piede con compiacimento e  con un sorriso vago che le accendeva gli occhi verde scuro di una luce calda e profonda. Non aveva bisogno di  guardarla in faccia per indovinare l’espressione della moglie. Quel gesto distratto, che le era abituale, e la soddisfazione che le comportava, Marco li conosceva bene. Era, per la verità, una delle cose che lo aveva colpito, tecnicamente eccitato a voler essere fino in fondo onesti, quattro anni prima nella sala di aspetto dell’assessore comunale alla cultura nella quale si erano conosciuti per caso. 
Si erano trovati lì, entrambi delegati dai rispettivi capi a sorbirsi le scontate promesse pre-elettorali di quel politico comunale in declino. Come in tutte le occasioni ufficiali, lei indossava delle décolleté nere e abbastanza formali, fatte di una pelle che appariva morbida e perfettamente aderente alle forme del piede affusolato e percorso da nervi e vene in rilievo. Stava seduta compostamente sulla sedia da ufficio, ma di tanto in tanto si guardava le caviglie e la curva del piede che teneva aderente al polpaccio in quel suo modo tipico di accavallare le gambe, quasi intrecciandole tra loro. Marco più volte ne aveva seguito lo sguardo, vergognandosene anche un po’: gli sembrava di spiarla, come effettivamente era, ma non riusciva a resistere. Aveva da sempre questo combattimento dentro di sé, fin da quando era un ragazzino: sentiva un’irresistibile urgenza di guardare, ma provava simultaneamente un pudore divorante che suonava come un rimprovero tanto severo quanto inutile, che non riusciva ad impedire del tutto quel comportamento inopportuno. A piacergli ancora di più e allo stesso tempo a turbarlo era il significato di quel gesto spontaneo di Mirella che Marco intuiva: era compiacimento della propria bellezza e soddisfatta consapevolezza del proprio fascino. Quella donna guardava sé stessa con una specie di desiderio: non si piaceva solo, era qualcosa di più di questo. 
In quella sala d’aspetto nella quale si sentiva odore di gesso e muffa, Marco fu subito sicuro che lei sapesse esattamente e in ogni momento cosa gli occhi di lui stavano guardando. Lo sapeva e lo lasciava fare, anzi lo guidava. Giocavano in due, ma a dettare le regole era lei. Non solo perché riusciva ad attirare tutta l’attenzione su di sé, ma anche perché scandiva modi e tempi di quel duetto silenzioso. Era questo che lo aveva vinto e ancora lo vinceva di Mirella: essere sfacciata ed elegante allo stesso tempo, incurante degli sguardi altrui eppure vorace dell’effetto che faceva sugli altri, del tutto indipendente e distaccata eppure in relazione viscerale con il mondo circostante. Quel miscuglio di attrazione e inquietudine che lei gli provocava, la sensazione di essere in suo potere, fu l’emozione che lo spinse a rivolgerle la parola alla fine della riunione con l’assessore ed era il sentimento che più lo teneva legato a lei ancora adesso. 
Quella sera, lasciati gli uffici del politico, stettero a parlare un’ora sotto il portone del Comune per ripararsi dalla pioggia violenta e poi ancora un’altro paio d’ore almeno, in un caffè nel quale non sarebbero più tornati. Da allora, non si erano di fatto più lasciati. Lei non esitò a mandare all’aria la relazione che aveva, tra gli applausi e i sospiri di sollievo della famiglia e degli amici che non approvavano il suo fidanzato. Lui non trovò alcuna contraddizione con la decisione di non avere relazioni serie per almeno un po’ di tempo, dopo “la musata”, così la chiamava, che aveva preso con la sua ragazza precedente.  
 
 
 
Ma non era a quel pomeriggio lontano che pensava in quel momento sulla soglia del loro salotto: si stava godendo l’attimo. Se ne stette incantato per qualche secondo ancora, osservando la moglie e desiderando di baciarle la curva dei piedi, ma non osò neanche entrare: la vide troppo presa dalla conversazione per disturbarla e questo lo turbò ancora di più. Ne incrociò però lo sguardo prima di rifugiarsi di nuovo in cucina e si scambiarono uno dei loro sorrisi di intesa, nei quali sembravano quasi sciogliersi l’uno nell’altra. In quei momenti, con quell’espressione un po’ interrogativa, Mirella gli appariva indifesa. E lui come le appariva? Non gliel’aveva mai detto, ma se c’era qualcosa di Marco di cui era innamorata come il primo giorno erano i suoi occhi nocciola, che si illanguidivano quando la guardava. Ne apprezzava l’effetto estetico, ma ancor di più l’intenzione: lo sentiva suo e ne percepiva tutto il sentimento. 
“Certo, prof che ne so ancora di matematica e teoria delle scienze. Anche meglio di prima, direi:  sono una fisica teorica, mica una sociologa come mio marito”, la sentì cinguettare, con un tono di voce leggermente più acuto del solito, che invece era di solito pacato e basso. Benché fosse rientrato in cucina, indeciso se riempirsi subito il terzo bicchiere di vino o accendersi una delle venti sigarette  dello stock settimanale che si era assegnato, la frase non gli sfuggì. Perché sottolineare quel “mio marito”, perché tirarlo in ballo, cosa c’entrava lui con le competenze di lei?  Così come aveva colto quel dividere il mondo tra un “noi matematici” e un “loro sociologi” che lo aveva fatto sentire deliberatamente un po’ escluso, benché non gli fosse nuovo. Lui era l’umanista in una famiglia, quella della moglie, di scienziati. Il padre era un medico, sebbene avesse esercitato per poco la professione per darsi interamente alla ricerca, la madre una biologa molecolare. Anche Marco aveva pensato a una facoltà scientifica quando era al liceo. Alla fine, però, aveva scelto Scienze politiche, per poi passare a Sociologia, perché più conciliabili con i lavori di cameriere e spesso manovale che era costretto a fare per integrare le continue borse di studio che otteneva e mantenersi nella grande città, nella quale era andato, più per sfuggire al grigiore della sua famiglia, reso ancora più cupo dalle ristrettezze economiche, che per necessità di studio. Università di buon livello non ne mancavano nella sua città, ma mettere centinaia di chilometri di distanza tra sé e l’ipocrisia bigotta dei genitori e dei suoi quattro fratelli, gli era sembrata l’unica scelta da fare. Del giorno in cui era partito, ricordava soprattutto il padre. Aveva in testa il berretto della ditta per la quale lavorava e, mentre il figlio salutava la famiglia sull’uscio di casa, era distratto dalle forme della vicina di casa, che si sentiva tanto intima da partecipare al commiato. In quasi quindici anni ci era tornato solo pochissime volte in quella casa-  una  fu per un convegno e una per la morte della madre – , ed era ormai quasi un lustro che mancava dalla città nella quale era cresciuto e con la quale non aveva più nulla a che fare. La sua vita era tutta nel posto che lo aveva  accolto. 
Ma sì, certo, che gli aveva parlato di G., quasi lo rimproverò dopo Mirella, quando finalmente la telefonata fu finita.  Era stato il suo professore di Analisi matematica al secondo anno di università e ora era tornato in città dopo qualche anno in America. Aveva bisogno di un aiuto per alcune ricerche e per la revisione di “una storia definitiva della matematica che mettesse la parola fine ad alcune diatribe sulla materia e diventasse un punto di riferimento anche per il futuro”, gli aveva spiegato, riportando le parole del professore. 
“E chiede un aiuto a me. Ma ti rendi conto? Non male eh?”. 
Accompagnò quelle parole con un sorriso largo, che esprimeva gioia, sistemandosi allo stesso tempo una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il gesto che le era abituale nelle rare occasioni nelle quali si sentiva imbarazzata. Marco non replicò nulla. Era felice per lei, ma il suo sguardo era rimasto impigliato nell’increspatura delle labbra di sua moglie. Non era semplicemente bella. Quando era felice promanava bellezza e la spandeva intorno con generosità.
G. era un ambizioso che puntava sempre ad imprese importanti: voleva lasciare il segno e alcune delle sue opere precedenti erano state già considerate molto valide dalle principali riviste scientifiche internazionali. Un pezzo da novanta della scienza, insomma, come lo aveva definito Mirella in quella veloce presentazione del suo vecchio professore a Marco, che nel frattempo aveva recuperato attenzione.
“Ma ora vuole di più. Si sente maturo per compiere il passo definitivo. Vuole entrare a sua volta nella storia, dando un punto di vista che secondo lui è del tutto originale, con un’opera che si presenta come ciclopica, più che enciclopedica”. 
“Non mi ha detto esattamente queste parole, ma lo conosco bene e so cosa davvero intende: oltrepassare la soglia dell’eccellenza e varcare quella dell’ottimo, come ci ripeteva spesso durante le lezioni. Ha l’età, l’esperienza e la maturità giusta per tentare l’impresa e ancora tempo sufficiente per aggiustare il tiro e scalare vette ancora maggiori. È uno che non si accontenta, quello”. 
Quella sicurezza che Mirella mostrava nel parlare del suo vecchio professore, fece impennare l’attenzione di Marco. Ma non la interruppe neanche questa volta, la lasciò continuare.
La spiegazione non si fece attendere. Mirella ne conosceva la meticolosità e la serietà degli intenti, quasi la caparbietà e l’ostinazione senza clemenza per sé e per gli altri, fin da quando gli aveva dato un piccolo contributo per un altro volume, di carattere più tecnico quello, una decina di  anni prima. Allora, era ancora una studentessa, ma quell’esperienza fu fondamentale per la sua crescita.  
“Se le cose vanno come devono, per me è una grande occasione per scrollarmi di dosso le lentezze e l’inconcludenza del posto dove lavoro. Me la devo giocare bene”. Era da tempo che Marco non la vedeva così determinata. Forse era la svolta di cui aveva bisogno a quel punto della sua carriera e per la quale in realtà non aveva fatto nulla di concreto e coerente fino a quel momento. 
”Significa che in passato ho seminato bene”.  Lo disse stringendo la mano di Marco, quasi a cercarne la conferma. Lui ricambiò massaggiandole i perfetti ovali delle unghie rosee e lisce. 
“Direi che siamo d’accordo”, era stata la conclusione del professore, “quando sarò pronto ci vedremo per discutere i dettagli e per la consegna dei primi testi. Diciamo che martedì mi rifaccio vivo”. Neanche in quel caso Marco fece domande. Sembrava tutto già deciso e lui effettivamente c’entrava poco con il lavoro della moglie. La sensazione fastidiosa che aveva avuto all’inizio della telefonata era stata tutto sommato cancellata da quei dettagli pratici, che anche lui involontariamente aveva ascoltato, benché a frammenti, e dal preciso resoconto che Mirella gli stava fornendo. Ma una domanda la fece a sé stesso: si erano dati del tu o del lei? Era un dettaglio di poca importanza, in fondo, una curiosità, ma si pentì di non aver prestato maggiore attenzione. 
Cenarono progettando un improbabile e spericolato week-end fuori porta. Era il Giovedì Santo e sarebbe stato difficile trovare ancora qualcosa di decente se non a prezzi folli, per cui decisero che si sarebbero goduti la città vuota. 
Marco si era già dimenticato di tutte le perplessità e gli interrogativi che quella chiamata giunta dal passato di Mirella gli aveva procurato, appena dopo essersi lavato i denti, al termine del lungo cerimoniale che ogni sera compiva insieme con la moglie nella stanza da bagno padronale, prima di andare a letto. L’unica variante, quella sera, fu una sortita di Mirella al computer nello studio comune, invece di andare subito in camera. Quando lei si infilò nel letto, G. era uscito dalla testa di Marco. Era già sul punto di dormire e quasi non si accorse neanche del corpo caldo della moglie che gli si distese accanto. 
Fu lei a tornare sull’argomento, il pomeriggio successivo, mentre ognuno era impegnato al rispettivo tavolo di lavoro nell’ampio studio, dal quale si stavano godendo un tramonto rosso fuoco. 
“È strano che tu non ti ricordi di Emilio G., te ne ho parlato una o due volte, non puoi non ricordare”.
Non poteva? Marco si sforzò di pensare per colmare quel vuoto di memoria, ma proprio non ce la fece.
“Nicht G. in mia grande mente” le disse scherzando, portandosi le mani alle tempie ed oscillando la testa con un movimento che gli smosse i lunghi capelli castani, ma era del tutto sincero. 
“Ma dai. Era quel mio professore del secondo anno di cui sono stata anche un po’ innamorata. Sono i racconti che ti piacciono di più”, lo provocò, guardandolo da sotto in su con un aria di innocua sfida.
“Non mi sarà piaciuto tanto questo racconto, allora. Buio totale. Dimmelo ora: successe qualcosa tra voi?”
“Sarà per questo che non ricordi: zero porcherie da riportare”.  
Marco era sicuro di averlo sentito nominare solo la sera prima ed era abbastanza sicuro di ricordare esattamente ogni amore, innamoramento, cotta o semplice simpatia passata e presente che la moglie gli avesse raccontato. 
Il professor G. era quell’insegnante che le aveva dato filo da torcere all’inizio del corso e  di cui erano innamorate praticamente tutte le studentesse della facoltà e di cui “con certezza assoluta e inoppugnabile” lei gli aveva raccontato almeno una volta, insistette la moglie. G., a quei tempi bello e affascinante quarantenne, dai capelli e dalla barba appena striati di grigio, era serio, sposato e praticamente indifferente alle avance delle sue studentesse, che certo più o meno dirette, non mancavano da parte delle più intraprendenti, ma anche da parte di qualche gatta morta. 
“Ieri sera ho visto il suo profilo sul sito dell’Università e devo dire che è addirittura migliorato se è possibile”, lasciò cadere Mirella. 
“Insomma, te lo faresti ancora” riassunse Marco, accolto da un’espressione di profonda riflessione da parte della moglie. Era un tipo di confessione che Mirella non avrebbe avuto problemi a fare: non aveva segreti per il marito, al quale non nascondeva desideri e pulsioni verso altri uomini. Quelle ammissioni, spesso arricchite da particolari piccanti, erano anzi benzina per il loro stesso rapporto. 
La risposta di Mirella si fece attendere ancora un po’ e si risolse in “Uhummm, non so”, che suonava tanto dubbioso quanto sincero. Il suo sorriso, con Marco che la scrutava dritto negli occhi, diventati verde scuro nella luce del tramonto e resi più profondi da un tocco discreto di mascara, si sciolse nella sua risata cristallina e un po’ canagliesca, tipica di occasioni del genere. Marco, del resto, non aveva bisogno di conferme. Sapeva esattamente che un “non so” di Mirella, detto a quel modo poi, equivaleva a un sì pieno. 
Quel che accadde quando andarono a letto ne fu una prova? Fecero l’amore, come capitava quasi ogni sera in quel periodo,  ma lei ci mise l’intensità e l’abbandono di quando era particolarmente eccitata. La fantasia che li accompagnò era un classico per loro: un secondo uomo, che insieme con Marco si prendesse cura del piacere di lei. Avevano personaggi reali che ricorrevano in questi sogni ad occhi aperti, pochi prescelti come possibili, futuri amanti, che a loro insaputa si infilavano nel letto nuziale e partecipavano alle lunghe e intense sessioni di sesso della coppia. Talvolta, però questi amanti immaginari, ma non meno concreti a giudicare dagli orgasmi di Mirella, erano casuali, figure inventate al momento e caratterizzate ora dalla razza, ora dall’altezza, ora dalla prestanza del membro o semplicemente dall’età. Quella sera, toccò a uno di questi “chiavatori ignoti” o “scopator cortesi”, come li chiamavano scherzosamente, immolarsi alle loro voglie, eppure Marco ebbe la sensazione che Mirella ne avesse in testa uno preciso. 
Era il professore? Probabile, e il pensiero  non lo disturbò per davvero. Lo eccitava immaginarsi Mirella con uomini più anziani. Quante volte ci avevano fantasticato e quante esperienze del genere, reali quanto lontane nel tempo, gli aveva raccontato lei? 
Mirella era senza pensieri in quel momento:  si gustava la fantasia dello sconosciuto affondato nel suo ano, mentre il marito le stava facendo un cunnilingus lungo e profondo, penetrandole allo stesso tempo quel fondoschiena rotondo e muscoloso con due dita, quasi a far le veci dell’altro. Marco ci sapeva fare in quelle cose e sarebbe bastata la sua normale abilità per ottenere un risultato più che soddisfacente. Per qualche ragione però si impegnò anche più del solito, quasi volesse dimostrare di essere lui il migliore e quello che alla fine le dava per davvero piacere. 
Lei se ne stava abbandonata a cosce divaricate, tenendosi le piccole mammelle, perfettamente tonde e sode,  con le mani e non aveva la minima idea del perché il marito ci stesse dando dentro con tanta foga. In realtà, in quei momenti di piacere intenso non le importava proprio nulla dei perché. Il suo corpo e la sua mente erano in posti diversi eppure convergenti nell’unico punto dell’universo che per lei avesse un senso in quel preciso istante: il suo clitoride. Sapeva solo che tanto impegno le sarebbe valso un orgasmo degno di nota, quale in effetti fu: lunghissimo e liberatorio. Marco riuscì a resistere poco ancora. Dopo averla penetrata, fece appena in tempo a sfilarsi dalla vagina della moglie e a dirigere il fiotto impetuoso del suo sperma sul ventre ancora contratto di lei.
Amava essere strumento e allo stesso tempo spettatore del godimento di Mirella. Amava e odiava esserne un po’ escluso e un po’ partecipe e quel contrasto era la fonte più profonda di ogni suo orgasmo. Non ne conosceva altri da anni e non gli interessava neanche averne di diversi.  Che fosse Emilio G. o  un altro quel terzo, aveva poca importanza. Alla fine, a decidere personaggi, immaginari o reali, tempi e modi per incontrarli, nelle fantasie o dal vivo, erano soltanto loro due.