Ma non era a quel pomeriggio lontano che pensava in quel momento sulla soglia del loro salotto: si stava godendo l’attimo. Se ne stette incantato per qualche secondo ancora, osservando la moglie e desiderando di baciarle la curva dei piedi, ma non osò neanche entrare: la vide troppo presa dalla conversazione per disturbarla e questo lo turbò ancora di più. Ne incrociò però lo sguardo prima di rifugiarsi di nuovo in cucina e si scambiarono uno dei loro sorrisi di intesa, nei quali sembravano quasi sciogliersi l’uno nell’altra. In quei momenti, con quell’espressione un po’ interrogativa, Mirella gli appariva indifesa. E lui come le appariva? Non gliel’aveva mai detto, ma se c’era qualcosa di Marco di cui era innamorata come il primo giorno erano i suoi occhi nocciola, che si illanguidivano quando la guardava. Ne apprezzava l’effetto estetico, ma ancor di più l’intenzione: lo sentiva suo e ne percepiva tutto il sentimento.
“Certo, prof che ne so ancora di matematica e teoria delle scienze. Anche meglio di prima, direi: sono una fisica teorica, mica una sociologa come mio marito”, la sentì cinguettare, con un tono di voce leggermente più acuto del solito, che invece era di solito pacato e basso. Benché fosse rientrato in cucina, indeciso se riempirsi subito il terzo bicchiere di vino o accendersi una delle venti sigarette dello stock settimanale che si era assegnato, la frase non gli sfuggì. Perché sottolineare quel “mio marito”, perché tirarlo in ballo, cosa c’entrava lui con le competenze di lei? Così come aveva colto quel dividere il mondo tra un “noi matematici” e un “loro sociologi” che lo aveva fatto sentire deliberatamente un po’ escluso, benché non gli fosse nuovo. Lui era l’umanista in una famiglia, quella della moglie, di scienziati. Il padre era un medico, sebbene avesse esercitato per poco la professione per darsi interamente alla ricerca, la madre una biologa molecolare. Anche Marco aveva pensato a una facoltà scientifica quando era al liceo. Alla fine, però, aveva scelto Scienze politiche, per poi passare a Sociologia, perché più conciliabili con i lavori di cameriere e spesso manovale che era costretto a fare per integrare le continue borse di studio che otteneva e mantenersi nella grande città, nella quale era andato, più per sfuggire al grigiore della sua famiglia, reso ancora più cupo dalle ristrettezze economiche, che per necessità di studio. Università di buon livello non ne mancavano nella sua città, ma mettere centinaia di chilometri di distanza tra sé e l’ipocrisia bigotta dei genitori e dei suoi quattro fratelli, gli era sembrata l’unica scelta da fare. Del giorno in cui era partito, ricordava soprattutto il padre. Aveva in testa il berretto della ditta per la quale lavorava e, mentre il figlio salutava la famiglia sull’uscio di casa, era distratto dalle forme della vicina di casa, che si sentiva tanto intima da partecipare al commiato. In quasi quindici anni ci era tornato solo pochissime volte in quella casa- una fu per un convegno e una per la morte della madre – , ed era ormai quasi un lustro che mancava dalla città nella quale era cresciuto e con la quale non aveva più nulla a che fare. La sua vita era tutta nel posto che lo aveva accolto.
Ma sì, certo, che gli aveva parlato di G., quasi lo rimproverò dopo Mirella, quando finalmente la telefonata fu finita. Era stato il suo professore di Analisi matematica al secondo anno di università e ora era tornato in città dopo qualche anno in America. Aveva bisogno di un aiuto per alcune ricerche e per la revisione di “una storia definitiva della matematica che mettesse la parola fine ad alcune diatribe sulla materia e diventasse un punto di riferimento anche per il futuro”, gli aveva spiegato, riportando le parole del professore.
“E chiede un aiuto a me. Ma ti rendi conto? Non male eh?”.
Accompagnò quelle parole con un sorriso largo, che esprimeva gioia, sistemandosi allo stesso tempo una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il gesto che le era abituale nelle rare occasioni nelle quali si sentiva imbarazzata. Marco non replicò nulla. Era felice per lei, ma il suo sguardo era rimasto impigliato nell’increspatura delle labbra di sua moglie. Non era semplicemente bella. Quando era felice promanava bellezza e la spandeva intorno con generosità.
G. era un ambizioso che puntava sempre ad imprese importanti: voleva lasciare il segno e alcune delle sue opere precedenti erano state già considerate molto valide dalle principali riviste scientifiche internazionali. Un pezzo da novanta della scienza, insomma, come lo aveva definito Mirella in quella veloce presentazione del suo vecchio professore a Marco, che nel frattempo aveva recuperato attenzione.
“Ma ora vuole di più. Si sente maturo per compiere il passo definitivo. Vuole entrare a sua volta nella storia, dando un punto di vista che secondo lui è del tutto originale, con un’opera che si presenta come ciclopica, più che enciclopedica”.
“Non mi ha detto esattamente queste parole, ma lo conosco bene e so cosa davvero intende: oltrepassare la soglia dell’eccellenza e varcare quella dell’ottimo, come ci ripeteva spesso durante le lezioni. Ha l’età, l’esperienza e la maturità giusta per tentare l’impresa e ancora tempo sufficiente per aggiustare il tiro e scalare vette ancora maggiori. È uno che non si accontenta, quello”.
Quella sicurezza che Mirella mostrava nel parlare del suo vecchio professore, fece impennare l’attenzione di Marco. Ma non la interruppe neanche questa volta, la lasciò continuare.
La spiegazione non si fece attendere. Mirella ne conosceva la meticolosità e la serietà degli intenti, quasi la caparbietà e l’ostinazione senza clemenza per sé e per gli altri, fin da quando gli aveva dato un piccolo contributo per un altro volume, di carattere più tecnico quello, una decina di anni prima. Allora, era ancora una studentessa, ma quell’esperienza fu fondamentale per la sua crescita.
“Se le cose vanno come devono, per me è una grande occasione per scrollarmi di dosso le lentezze e l’inconcludenza del posto dove lavoro. Me la devo giocare bene”. Era da tempo che Marco non la vedeva così determinata. Forse era la svolta di cui aveva bisogno a quel punto della sua carriera e per la quale in realtà non aveva fatto nulla di concreto e coerente fino a quel momento.
”Significa che in passato ho seminato bene”. Lo disse stringendo la mano di Marco, quasi a cercarne la conferma. Lui ricambiò massaggiandole i perfetti ovali delle unghie rosee e lisce.
“Direi che siamo d’accordo”, era stata la conclusione del professore, “quando sarò pronto ci vedremo per discutere i dettagli e per la consegna dei primi testi. Diciamo che martedì mi rifaccio vivo”. Neanche in quel caso Marco fece domande. Sembrava tutto già deciso e lui effettivamente c’entrava poco con il lavoro della moglie. La sensazione fastidiosa che aveva avuto all’inizio della telefonata era stata tutto sommato cancellata da quei dettagli pratici, che anche lui involontariamente aveva ascoltato, benché a frammenti, e dal preciso resoconto che Mirella gli stava fornendo. Ma una domanda la fece a sé stesso: si erano dati del tu o del lei? Era un dettaglio di poca importanza, in fondo, una curiosità, ma si pentì di non aver prestato maggiore attenzione.
Cenarono progettando un improbabile e spericolato week-end fuori porta. Era il Giovedì Santo e sarebbe stato difficile trovare ancora qualcosa di decente se non a prezzi folli, per cui decisero che si sarebbero goduti la città vuota.
Marco si era già dimenticato di tutte le perplessità e gli interrogativi che quella chiamata giunta dal passato di Mirella gli aveva procurato, appena dopo essersi lavato i denti, al termine del lungo cerimoniale che ogni sera compiva insieme con la moglie nella stanza da bagno padronale, prima di andare a letto. L’unica variante, quella sera, fu una sortita di Mirella al computer nello studio comune, invece di andare subito in camera. Quando lei si infilò nel letto, G. era uscito dalla testa di Marco. Era già sul punto di dormire e quasi non si accorse neanche del corpo caldo della moglie che gli si distese accanto.
Fu lei a tornare sull’argomento, il pomeriggio successivo, mentre ognuno era impegnato al rispettivo tavolo di lavoro nell’ampio studio, dal quale si stavano godendo un tramonto rosso fuoco.
“È strano che tu non ti ricordi di Emilio G., te ne ho parlato una o due volte, non puoi non ricordare”.
Non poteva? Marco si sforzò di pensare per colmare quel vuoto di memoria, ma proprio non ce la fece.
“Nicht G. in mia grande mente” le disse scherzando, portandosi le mani alle tempie ed oscillando la testa con un movimento che gli smosse i lunghi capelli castani, ma era del tutto sincero.
“Ma dai. Era quel mio professore del secondo anno di cui sono stata anche un po’ innamorata. Sono i racconti che ti piacciono di più”, lo provocò, guardandolo da sotto in su con un aria di innocua sfida.
“Non mi sarà piaciuto tanto questo racconto, allora. Buio totale. Dimmelo ora: successe qualcosa tra voi?”
“Sarà per questo che non ricordi: zero porcherie da riportare”.
Marco era sicuro di averlo sentito nominare solo la sera prima ed era abbastanza sicuro di ricordare esattamente ogni amore, innamoramento, cotta o semplice simpatia passata e presente che la moglie gli avesse raccontato.
Il professor G. era quell’insegnante che le aveva dato filo da torcere all’inizio del corso e di cui erano innamorate praticamente tutte le studentesse della facoltà e di cui “con certezza assoluta e inoppugnabile” lei gli aveva raccontato almeno una volta, insistette la moglie. G., a quei tempi bello e affascinante quarantenne, dai capelli e dalla barba appena striati di grigio, era serio, sposato e praticamente indifferente alle avance delle sue studentesse, che certo più o meno dirette, non mancavano da parte delle più intraprendenti, ma anche da parte di qualche gatta morta.
“Ieri sera ho visto il suo profilo sul sito dell’Università e devo dire che è addirittura migliorato se è possibile”, lasciò cadere Mirella.
“Insomma, te lo faresti ancora” riassunse Marco, accolto da un’espressione di profonda riflessione da parte della moglie. Era un tipo di confessione che Mirella non avrebbe avuto problemi a fare: non aveva segreti per il marito, al quale non nascondeva desideri e pulsioni verso altri uomini. Quelle ammissioni, spesso arricchite da particolari piccanti, erano anzi benzina per il loro stesso rapporto.
La risposta di Mirella si fece attendere ancora un po’ e si risolse in “Uhummm, non so”, che suonava tanto dubbioso quanto sincero. Il suo sorriso, con Marco che la scrutava dritto negli occhi, diventati verde scuro nella luce del tramonto e resi più profondi da un tocco discreto di mascara, si sciolse nella sua risata cristallina e un po’ canagliesca, tipica di occasioni del genere. Marco, del resto, non aveva bisogno di conferme. Sapeva esattamente che un “non so” di Mirella, detto a quel modo poi, equivaleva a un sì pieno.
Quel che accadde quando andarono a letto ne fu una prova? Fecero l’amore, come capitava quasi ogni sera in quel periodo, ma lei ci mise l’intensità e l’abbandono di quando era particolarmente eccitata. La fantasia che li accompagnò era un classico per loro: un secondo uomo, che insieme con Marco si prendesse cura del piacere di lei. Avevano personaggi reali che ricorrevano in questi sogni ad occhi aperti, pochi prescelti come possibili, futuri amanti, che a loro insaputa si infilavano nel letto nuziale e partecipavano alle lunghe e intense sessioni di sesso della coppia. Talvolta, però questi amanti immaginari, ma non meno concreti a giudicare dagli orgasmi di Mirella, erano casuali, figure inventate al momento e caratterizzate ora dalla razza, ora dall’altezza, ora dalla prestanza del membro o semplicemente dall’età. Quella sera, toccò a uno di questi “chiavatori ignoti” o “scopator cortesi”, come li chiamavano scherzosamente, immolarsi alle loro voglie, eppure Marco ebbe la sensazione che Mirella ne avesse in testa uno preciso.
Era il professore? Probabile, e il pensiero non lo disturbò per davvero. Lo eccitava immaginarsi Mirella con uomini più anziani. Quante volte ci avevano fantasticato e quante esperienze del genere, reali quanto lontane nel tempo, gli aveva raccontato lei?
Mirella era senza pensieri in quel momento: si gustava la fantasia dello sconosciuto affondato nel suo ano, mentre il marito le stava facendo un cunnilingus lungo e profondo, penetrandole allo stesso tempo quel fondoschiena rotondo e muscoloso con due dita, quasi a far le veci dell’altro. Marco ci sapeva fare in quelle cose e sarebbe bastata la sua normale abilità per ottenere un risultato più che soddisfacente. Per qualche ragione però si impegnò anche più del solito, quasi volesse dimostrare di essere lui il migliore e quello che alla fine le dava per davvero piacere.
Lei se ne stava abbandonata a cosce divaricate, tenendosi le piccole mammelle, perfettamente tonde e sode, con le mani e non aveva la minima idea del perché il marito ci stesse dando dentro con tanta foga. In realtà, in quei momenti di piacere intenso non le importava proprio nulla dei perché. Il suo corpo e la sua mente erano in posti diversi eppure convergenti nell’unico punto dell’universo che per lei avesse un senso in quel preciso istante: il suo clitoride. Sapeva solo che tanto impegno le sarebbe valso un orgasmo degno di nota, quale in effetti fu: lunghissimo e liberatorio. Marco riuscì a resistere poco ancora. Dopo averla penetrata, fece appena in tempo a sfilarsi dalla vagina della moglie e a dirigere il fiotto impetuoso del suo sperma sul ventre ancora contratto di lei.
Amava essere strumento e allo stesso tempo spettatore del godimento di Mirella. Amava e odiava esserne un po’ escluso e un po’ partecipe e quel contrasto era la fonte più profonda di ogni suo orgasmo. Non ne conosceva altri da anni e non gli interessava neanche averne di diversi. Che fosse Emilio G. o un altro quel terzo, aveva poca importanza. Alla fine, a decidere personaggi, immaginari o reali, tempi e modi per incontrarli, nelle fantasie o dal vivo, erano soltanto loro due.